Di seguito l’intervento integrale con cui monsignor Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo Emerito di Trieste, ha aperto le “Tavole di Assisi” (9-10 settembre 2023), due giornate di confronto e proposte tra personalità laiche ed ecclesiali del mondo cattolico.
- Queste giornate di Assisi toccano diversi argomenti e si misurano con molti processi in atto nella nostra società. Loro scopo è di illuminare di verità e di speranza la presenza e l’azione dei cattolici nella società italiana di oggi. Dovendo io entrare per primo nell’”arena” per svolgere un intervento introduttivo, credo di essere tenuto alla sintesi. Non affronterò quindi nessuna tematica specifica – a questo penseranno gli altri relatori – ma cercherò di proporre un quadro, espresso per punti, della situazione generale in cui ci è dato di vivere e di operare come cattolici, sicuri che la fede nella Rivelazione di Cristo Salvatore, unitamente al corretto uso della nostra ragione che deriva da Cristo Creatore, non hanno perso la capacità di illuminare e animare in senso pieno la nostra azione nella società.
- Già da queste mie prime osservazioni, emerge un punto decisivo. Si pensa oggi che l’azione del cristiano nella vita pubblica possa essere solo indiretta, ossia che debba passare attraverso gli strumenti e le vie della laicità, oppure che debba adoperare – senza trascenderlo – il criterio della persona, il cosiddetto “personalismo”. Il cristiano, per quanto riguarda la costruzione della società nelle sue strutture politiche e nelle sue leggi, dovrebbe far fare ad altri e, tuttalpiù, animare le coscienze di tutti. Constatiamo oggi le difficoltà e i pericoli di una simile impostazione: il cristianesimo si riduce ad agenzia di animazione civica, l’agire morale è considerato autosufficiente e possibile senza la luce e il sostegno religioso, la fede si riduce a “buone pratiche sociali” che alla fine è sempre il potere di turno a stabilire. Bisogna recuperare la convinzione che il cristianesimo e la Chiesa intervengono direttamente nella vita sociale, non per sostituirsi ad altre competenze distinte e legittime, ma per orientare l’intera vita pubblica verso la sua vera finalità ultima, che è quella trascendente. Bisogna recuperare l’idea, insegnataci anche da Benedetto XVI, che Quaerere Deum ha dirette conseguenze sociali in quanto non è possibile dissodare le terre incolte della vita sociale senza aver prima dissodato le nostre anime. Siccome da una vita mi interesso di Dottrina sociale della Chiesa, mi sento di dire che senza questo presupposto anche la ricchezza del magistero sociale viene trascurata. Se oggi questa eredità si trova in difficoltà, come a me sembra essere, il motivo di fondo è di fede ed anche di ragione, ma prima di tutto di fede. Concediamo troppo al naturalismo e pensiamo che il mondo non abbia bisogno del Cristo della fede ma eventualmente solo del Cristo della ragione, per poi scendere progressivamente anche da quel livello ed arrivare al Cristo dell’etica mondialista e quindi al Cristo della coscienza individuale. Con questo esito il discorso circa il cristianesimo nella società finisce. Ritengo che o il cristianesimo e la Chiesa hanno qualcosa di proprio e di unico da dire nella pubblica piazza, oppure quello che dicono si risolve ad essere una delle tante opinioni che vociferano nel baccano quotidiano impropriamente elevato a “pubblico dibattito”.
- Qui viene spontaneo un accenno su una questione oggi affrontata in modo confuso e poco convincente. Se il cristianesimo e la Chiesa hanno qualcosa da dire nella pubblica piazza di proprio e di unico, ne deriva che i cattolici non possono collaborare con tutti, perché non possono darsi da fare indifferentemente per tutto. Scriveva Benedetto XVI che “Cristo accoglie tutti ma non accoglie tutto”. Questo tutto deve infatti essere vagliato alla luce di quanto la Chiesa ha da dire di proprio e di unico nella pubblica piazza. Sono consapevole di evidenziare un aspetto delicato e controverso nella Chiesa di oggi. A me sembra però che sia ancora valido quanto stabilito da Benedetto XVI nella sua Lettera apostolica a modo di Motu proprio sul servizio della carità del 11 novembre 2012, dato che l’impegno pubblico della Chiesa, anche attraverso i laici, è espressione della carità, la quale non può però essere in contrasto con la liturgia e con la dottrina. La suddetta Lettera apostolica di Benedetto XVI riguardava le attività delle associazioni legate giuridicamente alla Chiesa, ma anche di realtà autonome giuridicamente ma che si avvalgono del titolo di cattoliche ed anche dei singoli fedeli impegnati nella vita pubblica. In essa si dice che non è lecito collaborare con altre realtà sociali le cui finalità sono in contrasto con i principi cristiani, né è possibile accettare finanziamenti da associazioni o gruppi sociali che perseguano queste finalità divergenti e che il Vescovo deve vegliare su tutto questo. Il discorso mi sembra di grande interesse. Non era ritenuto possibile collaborare per la lotta all’Aids con associazioni che promuovevano la contraccezione – ricordiamo tutti la polemica per alcune frasi di Benedetto XVI sul contraccettivo pronunciate durante un viaggio in Africa – così oggi dobbiamo considerare inopportuno collaborare con associazioni che, pur avendo alcuni obiettivi positivi nella loro agenda, però lottano per promuovere l’aborto o il suicidio assistito. Non basta concordare nominalmente sulla questione ambientale per collaborare con tutti quanti se ne occupano e vi si impegnano. Né è lecito pensare che il senso della collaborazione possa nascere durante il percorso collaborativo, perché questo comporterebbe di negare quanto ho detto sopra ossia che la Chiesa abbia una parola propria e unica da dire sulla questione sociale. Si rimane negativamente colpiti, per fare un esempio, da quante realtà cattoliche facciano oggi propria l’agenda ONU per il 2030. Ricordo che il cardinale Martino nel 2007 aveva invitato i cattolici a non collaborare e a non finanziare più Amnesty International dopo la sua dichiarazione di voler promuovere l’aborto. Amnesty è una potente ONG da sempre molto attiva nel globalismo anticristiano ed esponente di primo piano di un Deep State fatto di collusioni nascoste tra fondazioni private, ONG e organismi internazionali. Questo discorso si può quindi allargare ad altri soggetti oggi molto cari ai cattolici ma, come Amnesty, per niente affidabili per i cattolici. Colgo qui l’occasione per annunciare che il prossimo 15mo Rapporto dell’Osservatorio cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo sarà dedicato proprio a questo tema e avrà il seguente titolo: “Il Deep State planetario, la politica manovrata dall’ombra”. Lo cito perché in esso potete trovare molti esempi – che qui non posso fare – circa l’esistenza di molte realtà sia istituzionali che nascoste nel sottobosco che oggi si propongono obiettivi apparentemente condivisibili, come per esempio la salvaguardia dell’ambiente, ma che in realtà stanno operando per la creazione di un “mondo nuovo” dai caratteri inquietanti. So per certo che molti cattolici vi cooperano.
- Prendo spunto da queste ultime considerazioni per proporre una ulteriore valutazione su un tema che io chiamerei dell’“agnosticismo cattolico”. Se prendiamo per esempio il campo della morale, vediamo che oggi si tende a dire che l’intelletto non può pretendere di vedere con la propria luce la “forma” di una azione, così come non può vedere la “forma” delle cose. La trascuratezza degli insegnamenti della Fides et ratio e della Veritatis splendor ha conseguenze piuttosto negative. Cosa sia la forma specifica dell’adulterio, per esempio, oggi tende a non essere più chiaro, né la questione della conoscibilità certa degli assoluti morali (negativi) è ritenuta importante. Si ritiene che queste categorie conoscitive siano astratte e impediscano di entrare nel vissuto delle persone. Nel caso dell’adulterio si dice infatti che esso non esiste, ma che esistono solo le singole persone che dopo il divorzio si sono risposate o comunque unite ad altra persona in una relazione more uxorio. Si dice che ogni singola situazione andrebbe considerata in se stessa e non alla luce di una formalità normativa ritenuta teorica ed astratta. Si dice anche che per fare questo bisognerebbe entrare nella vita di quelle persone e includerle senza valutare e giudicare, per accompagnarle. Certamente l’azione pastorale deve incontrare l’altro e gli altri, ma se ciò non viene fatto alla luce della verità non si tratta di un vero incontro. Inoltre, se dalla pastorale ecclesiale ci spostiamo alla presenza dei cristiani nella pubblica piazza, risulta evidente che non si può inseguire il caso per caso e che c’è necessità di categorie comprensive a carattere generale. Un approccio caso per caso è figlio del nominalismo, una filosofia magari compatibile con altre confessioni cristiane ma non con quella cattolica. Il nominalismo finisce per dirci che la realtà non ha una sua strutturazione veritativa interna, non esprime nessuna sapienza creatrice e non contiene nessun ordine finalistico. Ma allora – ci si chiede – qual è il fondamento della vita politica, cosa legittima l’autorità politica e cosa dà agli uni il diritto di comandare sugli altri? L’agnosticismo e il nominalismo ci dicono di agire senza prima pensare ed hanno quindi un impatto antropologico molto dirompente, dato che, invece, a tutti risulta che si pensa e poi si agisce. Quando poi non arrivi a sostenere che dall’azione dipende la verità del nostro pensare, il che conduce per direttiva al prassismo e alla legge della effettualità. Nominalismo e agnosticismo oggi sono molto presenti tra i cattolici e gli uomini di Chiesa, talvolta senza la necessaria consapevolezza, e li rende disponibili alle avventure anche le più strane. Evidenzia anche una certa “liquidità” dell’essere cattolici nella società, in un attivismo magari frenetico ma improduttivo. L’”agnosticismo cattolico” è alla base dell’oblio dei “principi non negoziabili”, di cui ci parlava Benedetto XVI, oblio che assolutizza la politica permettendole di fare tutto e, nello stesso temo, la svilisce, perché la rende cieca. La politica può fare tutto, ma alla cieca. Il danno dell’oblio dei principi non negoziabili è rilevantissimo perché ad una politica così ridotta la Dottrina sociale della Chiesa non ha più nulla da dire di significativo per essa.
- Dopo aver descritto, per punti e in estrema sintesi, questo quadro, vorrei chiedermi se forze sociali e politiche contrarie alla Dottrina sociale della Chiesa si stiano oggi facendo più pericolose oppure no. La mia impressione da vescovo e da osservatore, meglio: da osservatore come vescovo, è che il cerchio si stia stringendo e che gli spazi di libertà per il cattolico siano sempre più esigui fino a scomparire. Man mano che la secolarizzazione procede a grandi passi, aiutata nei suoi effetti distruttivi dalla nuova mondializzazione del nichilismo illuminato, la pattuglia dei cattolici impegnati nel sociale espressamente e senza mezzi termini alla luce della Dottrina sociale della Chiesa intesa come annuncio di Cristo nelle realtà temporali e non come semplice umanesimo vagamente solidarista e fraterno, si riduce di numero. Siamo di fronte ad una convergenza operativa molto coerente di molti centri di potere. Nessun ambito ne rimane esente. Non c’è una precisa cabina di regia, ma tutti quei soggetti parlano la stessa lingua, tutti mirano ad una società mondialista fondata sulla tecnologia e su una morale minima ambiguamente umanistica, post-veritativa, post-naturale e post-cristiana. L’unità di queste forze è data dalla loro cultura comune dell’illuminismo postmoderno. La domanda a questo punto si fa seria: a questa pressione coerente e coesa che vuole la distruzione della natura e della soprannatura, i cattolici, laici e uomini di Chiesa, si adeguano o tentano di opporsi? Per opporvisi servono le idee, oltre che le mani, con il che torniamo a quanto ripetutamente detto sopra: il cristianesimo e la Chiesa hanno qualcosa di proprio e di unico da dire al mondo. Se non lo fanno, o se lo fanno non come dovrebbero farlo, non rimarranno neutrali in un mondo a sé, ma saranno penetrati da altre idee che con le proprie non hanno niente a che fare. Negare il conflitto è il modo migliore di perderlo. A questa riappropriazione di quanto la Chiesa ha da dire di proprio e di unico è legato il destino anche dell’unità tra di noi. Se recupereremo solo alcuni suoi spezzoni, se non andremo fino in fondo, se avremo paura di non essere più graditi e interloquiti, allora rimarremo divisi e sappiamo che omne regnum in seipsum divisum desolabitur.