La teoria del “pensiero di gruppo” fu elaborata negli anni ’70 da un professore di psicologia dell’Università di Yale, Irving Janis, per spiegare gli errori sistematici compiuti da gruppi di individui nell’assumere decisioni collettive.
Attraverso una documentata serie di case studies, nel libro “Vittime del pensiero di gruppo” Janis descrisse un modello comportamentale che presenta, qualunque sia l’argomento in questione, alcuni passaggi caratteristici e fondamentali.
Questo modello è quello che ritroviamo nelle due crisi attualmente in atto a livello mondiale: la gestione della #pandemia di #Covid e della guerra in #Ucraina. Tre i suoi passaggi principali:
- un gruppo di persone condivide un particolare credo, che non è fondato su evidenze verificabili e non è totalmente realistico.
- proprio perché questo credo non è provabile, il gruppo si impegna a creargli attorno un “consenso” composto da opinioni buone e giuste: coloro che vi aderiranno saranno convinti di trovarsi tra persone moralmente e intellettualmente superiori, e forti di questa convinzione si sentiranno in dovere di “convertire” al credo anche gli altri. In questa fase si ricorre anche alla ripetizione di concetti e all’utilizzo di persone di prestigio/fama quali “testimonial” del consenso (cruciale in tal caso il ruolo della comunicazione e dei Media: nel diffondere, come un mantra, i messaggi del gruppo; nel creare il clima utile alla diffusione del credo; nell’evitare di metterlo in discussione anche davanti a macroscopiche illogicità; nel dare spazio ai testimonial di cui sopra). Insomma: stabilito il credo, lo si difende a ogni costo.
- per difendere questo credo, soggettivo e fondato su basi incerte e che quindi non si può tollerare sia discusso, il gruppo reagisce con sprezzo e ostilità verso chiunque osi metterlo in questione, denigrandolo (con accuse variabili verso i non conformi a seconda del tema: ad es. tacciando come “non scientifico” nel caso della pandemia, o “cattivo” nel caso della guerra). Il punto di vista di chi non abbraccia il pensiero di gruppo diventa completamente inaccettabile: non c’è nessuna possibilità di dialogo. Nel migliore dei casi lo si isola o lo si ignora, nel peggiore si passa al discredito. Chiuse dentro la propria bolla, che rinforza il loro credo, le persone si sentono al sicuro e si crogiolano nel proprio senso di superiorità morale. Il dissenso non può e non deve essere tollerato.
Resta da chiedersi allora: come e quando si esce dal pensiero di gruppo? L’ostacolo principale è la pervasività di questo paradigma in Occidente, al punto da aver coinvolto – e reso dipendente – buona parte del mondo accademico, scientifico, economico, politico. Posto che sempre più carriere dipendono dall’adesione al pensiero di gruppo di turno, risulta difficile immaginare che gli aderenti cambino idea.
Una cosa è certa e dovrebbe suonare da monito: la conclusione cui arriva nei suoi studi Janis, ovvero che l’esclusione sistematica di chiunque cerchi di mostrare elementi di ragione e di realismo, alla fine non può che portare a un disastro.
Speriamo di fermarci prima.